“Se la solidarietà è quella cosa che alcuni sentono solo quando ad averne bisogno sono loro”
Le immagini di una Napoli in festa alla vigilia del lockdown, con strade gremite di gente come fosse la vigilia di Natale con la solita sfrenata corsa all’ultimo regalo prima della chiusura dei negozi per poi fiondarsi al cenone, inducono almeno il sottoscritto ad alcune riflessioni, ma una per tutta se sia più grave il Covid o lo stato in cui si sia ridotta la società. Una profonda amarezza mi ha colto di fronte a quelle scene, io che vivo praticamente “in rosso” da mesi senza avere rinunciato neanche per un attimo alla vita e alle gioie che può regalarti, pur nei limiti in cui una dannata mascherina e il distanziamento sociale possano consentirlo.
Mi domando cosa spinge ormai sempre più gente a un rifiuto assoluto di limitazioni e sacrifici imposti per un bene comune, forse per la stessa sopravvivenza della società sia in termini di salute che di economia. Ascolto attonito amici e conoscenti che si sciacquano la bocca con espressioni ormai di gran moda come “dittatura sanitaria” e “limitazione di libertà individuali” e cerco di comprenderne il senso da mesi. Purtroppo non ci arrivo e anzi sarei grato se qualcuno mi riuscisse a convincere che ci troviamo davanti alla più grande bufala del secolo, magari un grande complotto dietro al quale si nasconde solo la famosa banalissima influenza.
Pensate che scoperta meravigliosa sarebbe per quelli che come me invece credono che questo dannatissimo virus terrà in ostaggio il pianeta intero per molti mesi ancora, o anni chissà, che continuerà a non consentirci un abbraccio, un bacio, un passo di danza e una canzone in coro con gli amici, che c’impedirà di viverci la condivisione emotiva di un film o di uno spettacolo teatrale, della forza liberatoria di una notte in discoteca, di stringere i nostri bambini e i nostri genitori e nonni senza il timore di farci male noi o di fare del male a loro, di viaggiare liberi negli angoli più remoti del mondo, di vacanze libere, di black friday in sfavillanti shopping center, di feste di compleanno, di allegri e “affollati” matrimoni, di eventi e sfilate di moda, di fiere, mercatini colorati e delle mille altre cose che fino all’inizio di marzo 2020 hanno inconsapevolmente fatto parte della vita di tutti.
Sabato per le strade di Napoli, ma anche nel centro di Firenze gemellata in “rosso” a partire da domenica 15 novembre, non c’erano né commercianti né ristoratori che protestavano, e neanche frange estremiste che soffiavano sul fuoco. C’erano solo moltitudini di gente insofferente a ogni regola, a ogni sacrificio, alla limitazione di quella famosa libertà individuale di cui non conoscono neanche il significato.
Perché la tua libertà finisce nel momento in cui inizia la mia, e se la tua sfrenata necessità di “struscio” per le vie cittadine e il bisogno del tuo milionesimo e inutile aperitivo si scontra con i genitori di amici stesi da giorni su un lettino nella solitudine di un ospedale – o nella condizione d’immane sfiancamento di amici che da settimane si curano da soli tra quattro mura, con auto-diagnosi telefoniche in attesa di tamponi che non arrivano o di medici-miraggio – ma anche con le drammatiche condizioni economiche di chi invece dal primo istante ha cercato di seguire le regole e di fare sacrifici per portare avanti attività letteralmente atterrate dal virus, se la tua libertà è questa io non solo non la rispetto ma la considero il massimo segno del degrado umano e di una società che allora ha davvero poche speranze di uscire da questa pandemia.
Perché all’irresponsabile comportamento di questa moltitudine di soggetti egoisticamente “liberi” è dovuto non solo il reale pericolo dell’aggravamento della salute pubblica ma anche il peggioramento di un’economia già disastrata. Un rispetto certosino delle regole e un generale senso di auto-responsabilità, se non restituirci la vita antecedente al marzo 2020 potrebbe quanto meno alleviarne i danni in termini economici. Se avessimo osservato certe regole e soprattutto avessimo rispettato la “libertà” degli altri, forse oggi potremmo ancora sederci in un ristorante, comprare in un mercatino con le dovute precauzioni e accorgimenti o goderci una performance teatrale e musicale con il giusto distanziamento delle sedute.
Siamo tutti figli di una generazione che non ha vissuto le guerre sulla propria pelle ma solo attraverso i racconti dell’infanzia da parte dei nostri nonni e genitori, forse in questo va ricercata la ragione di tanta difficoltà da parte di molti ad accettare il reale drammatico stato delle cose.
E nell’amarezza di queste riflessioni, ho immaginato la bellezza di coinvolgere il pianeta in un gioco, per raggiungere quei traguardi accessibili solo alla fantasia dell’infanzia.
Pensare alla Terra come a un immenso campo di bowling e noi miliardi di birilli, uno vicino all’altro, colorati, sorridenti, così “stretti” nella solidarietà da risultare impenetrabili e inattaccabili dal virus-palla che non potrà fare cadere nessuno perché la stretta è un “collante” troppo forte. E mentre resistiamo con la stretta solidale del sorriso e dell’ottimismo aiutiamo anche la scienza che continua a lavorare per noi. Ma attenzione, la “stretta solidale” non deve mai allentarsi perché se cade un birillo allora cadono gli altri, tutti, uno dopo l’altro, e allora vince lei, la orribile palla-virus!
Proviamo a immaginarci birilli, birilli solidali prima di essere noi stessi ad aver bisogno di quella solidarietà da troppi ormai dimenticata.
È solo un gioco, ma quante volte ci siamo “salvati” da bambini con un gioco e con la fantasia? E allora che ci costa provarci ancora, solo un’altra volta, giusto per non avere rimpianti.
Fonte: Anton Emilio Krogh per ytali.com